Capotondi si è come consacrato alla pietra e ai marmi, prediligendo le
varietà più ostiche e dure. Intendo il granito, il basalto e il
porfido, che rappresentano per lui il magma oscuro della psiche da
domare, il buco nero dell'universo da penetrare per far emergere alla
luce i nuclei vitali sommersi, anticorpi provvidenziali allo
smarrimento del mondo contemporaneo.
Nel granito, nel basalto, nel porfido, per la loro durezza, meglio si
esprime, anzi si esalta, il desiderio di Capotondi di misurarsi con la
materia formulando ipotesi plastiche al limite delle possibilità di
risoluzione, e in ogni caso molto impegnative sul piano concreto della
fatica fisica più volte ricordata, nonostante il non indifferente
ausilio dell'attrezzatura moderna. Attrezzi di cui gli scultori del
Rinascimento non potevano disporre, ovviamente, quando fu riscoperta
l'arte di lavorare il porfido, che Vasari attribuisce a Francesco
Ferrucci da Fiesole, detto il Tadda. Domenico Gnoli, nel capitolo
dedicato ai porfidi del suo "Marmora Romana", riferisce che una testa
di Gesù scolpita in porfido dal Tadda, «... fu grandemente ammirata da
Michelangelo, che, scoraggiato dalla durezza della pietra, aveva poco
prima rinunciato all'incarico di restaurare la grande vasca
porfiretica donata da Ascanio Colonna al Papa. "E Michelangiolo (dice
il Vasari) pur avvezzo alla durezza de' sassi insieme cogli altri se
ne tolse giù, né se ne fece altro"». Capotondi ha raccolto da tempo la
sfida di affrontare de visu e con le proprie mani munite di attrezzi
moderni il porfido e gli altri campioni lapidei di durezza, che
oppongono comunque una resistenza estenuante, e impongono tempi
esecutivi lunghissimi. Per questa ragione le trentuno sculture esposte
sono, nel loro complesso, una straordinaria testimonianza di dedizione
che non può (non dovrebbe) passare inosservata e non dovrebbe
costituire un insegnamento estetico e morale, anche se ci sono molte
ragioni per dubitare che il nostro tempo, così distratto e fatuo,
possa coglierne e in qualche modo assimilarne il messaggio.
Nicola
Micieli Pisa, maggio 2005 |